Imparare una lingua, un lavoro e, soprattutto, la pazienza
Ousmane Sylla lascia in Guinea la madre. Non ha fratelli o sorelle. Il padre è morto, e anche le speranze muoiono nella sua terra. Il carcere e le torture in Libia, poi l’approdo a Catania e l’arrivo a Reggio Emilia. Operato di tumore. Nel suo Paese non ce l’avrebbe fatta. C’è chi ha cura di lui e rinasce la speranza. La sua parrocchia, oggi, è Pratofontana, ed è qui che attende la madre per un abbraccio. Dopo cinque anni. La sua storia, la conversione, il lavoro e il futuro che si sta disegnando per Ousmane li racconta lo scrittore Piergiorgio Paterlini
«L’intervento doveva durare un’ora. Invece sono stato in sala operatoria sei ore. I miei amici fuori erano preoccupatissimi, c’erano due famiglie del mio paese d’origine, la Guinea, ma italiani ormai, qui da molti anni, e una decina di amici italiani.
Tormentavano i medici: “Ousmane è morto? È vivo?”. Pativano ed erano più spaventati di me. Ma se vieni da sei mesi di carcere in Libia, sei ore di sala operatoria al Santa Maria sono una passeggiata».
L’ospedale è stata la conferma – ma non ce n’era bisogno – che una nuova speranza, una nuova vita erano diventate possibili per Ousmane.
«Venivano in tanti a trovarmi – racconta – e tutti mi portavano qualcosa, e soffrivano più di me. E sono stati bravi, pazienti, hanno combattuto con me, abbiamo combattuto il tumore tutti insieme».
Gli amici sono soprattutto quelli della parrocchia di Pratofontana, di don Daniele Simonazzi. Che oggi è la parrocchia anche di Ousmane. Perché, da musulmano, è diventato cristiano e si è fatto battezzare.
Mi racconti la tua conversione?
«Non so dire esattamente come sia andata. A volte ti trovi in situazioni di vita che non avresti mai pensato. Comunque, sono le persone che contano. Mi sono stati talmente vicini che non ho resistito. Ho visto che anche il cristianesimo era una bella strada».
Ousmane Sylla sbarca a Catania il 23 giugno 2016, ha appena 22 anni, lascia in Guinea la madre, il papà è mancato nove anni fa, non ha fratelli né sorelle.
Arriva a Reggio il 21 luglio, viene accolto da Dimora d’Abramo, e nel settembre 2019 entra nel Progetto Siproimi. Gli bastano sedici mesi per rendersi autonomo. Oggi è un rifugiato politico, un giovane uomo cui è stato riconosciuto il diritto d’asilo e che sta ricostruendo la sua vita.
Parla un italiano migliore del mio, quasi quasi gli chiedo di darmi qualche ripetizione.
«Eravamo più di 120 persone su una barca di gomma di 12 metri. Una barca bucata, cercavamo a turno di tappare la falla con i nostri pochi vestiti. Pensavo: abbiamo venduto la nostra vita per niente. Ci hanno salvato prima una nave inglese e dopo una spagnola».
Lo sbarco a Catania, poi in pullman fino a Bologna, una sola notte nel capoluogo emiliano, poi dritto filato a Reggio.
«Arrivo, mi spiegano il percorso di accoglienza e integrazione, vengo ospitato nell’albergo di Massenzatico. E lì ho incontrato le persone della parrocchia, i volontari, sono venuti loro a cercarci, si sono presentati, ci hanno detto che erano lì soltanto per aiutarci, per la lingua, per tutto, e così hanno fatto». «L’Italia, Reggio in particolar modo, mi hanno ridato la speranza, la speranza che potevo farcela ancora».
Ma Ousmane, come non bastasse, ha anche un gravissimo problema di salute. Arriva che ha già un tumore vicino all’orecchio destro.
«In Guinea non mi avrebbero curato. Ci sono specialisti che hanno studiato in Europa e sono molto preparati ma… mancano gli ospedali. Il potere va a curarsi negli Stati Uniti, o in Francia, in Inghilterra, mandano i figli a curarsi o a studiare in Occidente, gli altri si arrangiano. Avremmo le risorse, ma il popolo è abbandonato».
Ousmane non è però scappato dalla Guinea per potersi curare – a Reggio gli asportano la parotide, oggi comincia a stare meglio, pochi giorni fa la Tac è andata bene, i controlli sono passati da tre a sei mesi, guarirà – è scappato da un luogo «in cui non c’è libertà, dilaga la corruzione, vige il “divide et impera”, non c’è futuro, non funziona niente. Finirà male».
«Avevo cominciato a lavorare in un internet point, sa – mi spiega (non c’è modo di passare al “tu”) – dove la gente che non ha internet a casa viene e paga per collegarsi mezz’ora, un’ora. Avevo iniziato a guadagnare e a farmi la mia strada. Poi mi sono messo a dire quello che pensavo. E sono cominciati i guai. Guai seri, serissimi. Ho perso tutto. Sono scappato con un amico, lui non ce l’ha fatta».
Rimaniamo entrambi in silenzio qualche attimo.
Poi Ousmane riprende il racconto: «Siamo stati quasi un anno in viaggio, non ricordo bene le date, siamo andati in Mali. L’Italia non ce l’avevo proprio in mente. All’inizio pensavo di rimanere in Mali, vicino a casa in qualche modo, ma ho visto che la situazione anche lì non era molto migliore che in Guinea. Allora siamo andati Algeria, a lavorare, ma il mio amico mi spingeva ad andare avanti, se restiamo qui – ripeteva – restiamo nella stessa merda. E allora siamo andati in Libia. Sempre peggio. Sei mesi di galera, torture, praticamente non ci davano da mangiare, una baguette per cinque persone. E lui, il mio amico, non ha resistito. Lo hanno ammazzato. Non ce l’ha fatta. Anch’io ero sicuro che sarei morto lì».
Ousmane invece riesce a fuggire, scampa alla morte in carcere, scampa alla morte in mare, e adesso è qui. È una tarda mattinata di sabato quando lo incontro. Gli chiedo delle sue giornate.
«Mi sono alzato alle 5 – dice – ho bevuto un caffè e sono andato a lavorare».
Ousmane è magazziniere a Corte Tegge, in genere dalle 7 alle 16, ma il lavoro c’è, spesso fa gli straordinari, 10-11 ore, e il sabato appunto. Abita con altri due ragazzi, ognuno la sua stanza, sente sua madre al telefono, la domenica va a messa, in tempi di Covid la sua parrocchia celebra la messa online, su Facebook. Meglio di niente.
Ha fatto la terza media lavorando, e due anni di scuola superiore, elettromeccanica. Ne mancano altri due per finire le superiori, si spera che da settembre la vita torni un po’ più “normale”.
«Farò otto ore di lavoro – dice Ousmane – poi cinque di scuola la sera, mica facile, ma sono molto determinato e concentrato su alcuni obiettivi fondamentali».
Quali?
Idee chiarissime.
Tre obiettivi: contratto stabile, cittadinanza, la casa.
«Voglio un contratto stabile, col diploma posso entrare al quarto livello, una buona posizione. Poi l’anno prossimo aspetto la cittadinanza, così potrò far venire qui mia madre. Non la vedo da cinque anni, mi manca molto. Lei non si trasferirà mai qui, e io non potrò tornare nel mio Paese, ma potremo vederci ogni tanto, lei venire a Reggio a trovarmi, io andare magari in Senegal o in Costa d’Avorio e stare un po’ con lei. Poi voglio avere una casa mia. E rimarrò a Reggio, certo. Magari andrò a fare una vacanza in Francia, dove conosco molte persone, un viaggio negli Stati Uniti mi piacerebbe, ma la mia casa è qui, conosco la gente di qui, conosco come ragiona, come la pensa e anch’io adesso ragiono come loro, come voi, la mentalità che avevo giù in Africa è cambiata e sono molto felice che sia cambiata. La mentalità che ho acquisito qui in fondo è quello che sognavo da bambino. Vivere in un luogo dove si può pensare quello che si vuole, dire quello che si vuole, fare quello che si vuole, nell’ambito della legge naturalmente. Un luogo dove nessuno si sente minacciato o in pericolo».
Ancora Ousmane. «La gente da noi pensa che in Europa tutto sia facile, e sia facile arrivare e vivere qui, sui social vede le fotografie… Non funziona così. È tristissimo dover lasciare il proprio Paese, abbandonare la famiglia. Fortunatamente l’accoglienza è incredibile. Io oggi ho la patente, la macchina, un lavoro, posso comprarmi i vestiti che mi servono ai centri commerciali, certo non quelli del lusso che vedo quando faccio un salto a Milano e fotografo le vetrine della moda che poi posto su Instagram o Facebook, ma va bene così. Grazie ai social ho ritrovato alcuni amici della mia città, del mio quartiere, qualche ex compagno di scuola, qualcuno addirittura che ha i genitori ricchi e adesso è qui in Europa, ma questi sono arrivati in aereo, non su un gommone. I miei amici in Guinea vedono queste foto e pensano appunto che tutto mi sia stato regalato. Non è certo così. So il percorso e i sacrifici che ho dovuto fare e che dovrò ancora fare. Ma almeno so che non sarà per tutta la vita, ho un tempo preciso davanti, due anni. Ancora due anni di scuola e lavoro duro. Poi tutto sarà più facile. E voglio farmi una famiglia mia, qui».
Da molti minuti – in realtà mi sembra quasi dall’inizio della chiacchierata – Ousmane non ha bisogno delle mie domande.
Continua: «All’inizio ero molto aggressivo: verso il Progetto, verso gli amici, verso me stesso. Poi ho imparato la pazienza. Mi hanno offerto l’aiuto di uno psicologo. Non mi serve uno psicologo, ho detto. Ho imparato la pazienza, la chiarezza degli obiettivi, ho trovato la forza. Ho ricominciato a vivere dopo aver creduto di essere già morto. Tutti quegli amici che venivano a trovarmi in ospedale, tutto quell’affetto, quel calore, solo quello mi bastava a farmi sentire in Paradiso».
Racconta, Ousmane. Racconta, racconta e racconta, e dice «raccontare fa bene». Io penso: fa bene a te, ma sapessi quanto fa bene a me. Starei ad ascoltarti per ore. Lo penso soltanto, non glielo dico, almeno non con queste parole, che gli suonerebbero retoriche.
Ma starei davvero ad ascoltarlo per giorni.
La sua voce mi arriva come una benedizione.
Piergiorgio Paterlini