Se la vita ti prende a calci, prendi a calci un pallone
Amadou Fofana è nato in Costa d’Avorio. Arriva a Reggio Emilia a 22 anni. Non in aereo. E’ scampato alla morte sui barconi. Parla molto bene l’italiano e gioca a calcio. Anche questo lo fa molto bene. Giocava già nel suo Paese, è stato capocannoniere. Il calcio gli salva la vita. Sorride e non s’arrabbia mai. E’ magazziniere, ma ha anche un magazzino tutto suo, dove custodisce un passato di cui non vuole parlare. Accenna, e il poco che concede è tragico. In quel magazzino custodisce anche il futuro, di cui non vuole parlare. Il suo racconto è l’oggi: il lavoro, il calcio, il tifo per il Napoli, la famiglia “che è tutto”, dice. Ma la famiglia è a seimila chilometri di distanza. E’ l’oggi che racconta Piergiorgio Paterlini
Colloquio con Amadou Fofana
Reggio Emilia, 11 febbraio 2021 – Mi avevano detto parla benissimo l’italiano, gli piace raccontare, farai fatica a fermarlo. Non è stato proprio così, ma un’intervista, con un giornalista che non hai mai conosciuto, non è come farsi l’aperitivo al bar (prima del Covid) con gli amici di tutti i giorni. O forse non era giornata. O chissà. Non è così facile – checché ne pensino tutti quelli che aspirano a parlare di sé e a far parlare di sé su un giornale, un blog, una televisione, un reality, ah magari un reality – non è così facile raccontarsi, mettersi in gioco. Soprattutto se quello che hai da raccontare è dolore, fatica, anche quando il dolore e la fatica si sono trasformati in forza, e voglia, voglia caparbia di avere una vita, di ri-avere una vita, riprendersela, la vita. E serve grande maturità, e lucidità, e una rara forma di coraggio e determinazione (scambiata scioccamente per debolezza, reticenza, imbarazzo) nel decidere cosa vuoi dire e cosa no, dove posizionare l’asticella, non sbracare del tutto, davanti al primo venuto che ti fa delle domande, anche se chi ti conosce bene ti ha spiegato il perché e il percome e tu hai detto di sì.
Lui è Amadou. Amadou Fofana. Classe 1994. Costa d’Avorio, Africa Occidentale, colonia francese fino al 1960, foreste pluviali e una capitale che ufficialmente non è la capitale, Abidjan, affacciata sull’Atlantico. Se scruti l’orizzonte – si fa per dire – vedi il Brasile, dall’altra parte dell’oceano. Seimila chilometri da Roma, metro più metro meno, undici ore e mezza di volo.
Ma Amadou non è certo arrivato in aereo, è uno di quelli scampati alla morte sui barconi.
Ci vediamo su Zoom, alle sei del pomeriggio, quando lui ha finito di lavorare, che con il Covid non si scherza.
Gli dico: partiamo dal presente, dall’oggi. È quello che mi interessa di più, ma è anche un modo per non cominciare proprio sfrugugliando il dito nelle piaghe.
Amadou parla davvero bene l’italiano, è a Reggio dall’agosto 2016, ha fatto tutto il percorso che fanno i giovani profughi (accoglienza, scuola, formazione al lavoro, inserimento sociale), abita qui con altri ragazzi, fa il magazziniere, ha preso la patente B e ora mira alla patente C, fa quel lavoro da due anni e da un po’ il suo contratto è diventato a tempo indeterminato. Un sogno oggi anche per molti coetanei nativi italici.
E gioca a calcio. Giocava. Prima del Covid. Giocava nel Real Casina, adesso il campionato è fermo. Ma gli allenamenti se non altro sono ripresi, prima due poi tre sere a settimana.
Quando il calcio salva una vita.
«Io giocavo già a calcio in Costa d’Avorio – mi racconta Amadou – frequentavo anzi una scuola di calcio. Sono un attaccante esterno. Sono stato anche capocannoniere. Quando sono arrivato qui, a Massenzatico ho cominciato a giocare nel campetto della chiesa. Mi ha visto il titolare di una squadra che era titolare anche di un’azienda. Mi ha inserito in squadra e offerto un lavoro».
Quasi per scherzo gli chiedo per chi fa il tifo in Italia. Mi risponde subito: «Per il Napoli». Perché proprio il Napoli? «Io tifavo Napoli – dice Amadou – già quando ero in Costa d’Avorio. Conoscevo tutto dell’Italia, l’Italia era un mito, il calcio, la moda, le scarpe, i marchi famosi, tutto».
Allora sei contento di essere qui, conosci bene la lingua, hai degli amici, un lavoro…
Ma a questo punto comincia un altro film. Amadou del futuro proprio non vuole parlare. Gli dico avrai dei sogni dei progetti. Lui risponde «il futuro non lo conosce nessuno, nel futuro tutto può cambiare, ho un milione di cose nella testa ma meglio non parlarne».
E così del passato. «No no, di quello non voglio parlare».
Neanche un cenno. Perché sei stato costretto a partire? Da cosa sei scappato? Niente.
Troppo doloroso, posso capirlo.
Niente passato, almeno per oggi, niente futuro.
L’oggi.
L’oggi che è un gruppo di amici anziani – cinquanta, sessant’anni – che giocano a calcio a sette e «mi vogliono molto bene, sto bene con loro, mi trattano come un figlio, poi gioco anch’io e il mio motore, così più giovane del loro, gira meglio ed è più potente». Ride. «Poi si va a mangiare la pizza insieme». Si andava, sempre prima del Covid. «Uno in particolare – dice – mi vuole molto ma molto bene, non avevo i soldi per l’autoscuola e me li ha dati lui».
L’oggi. «Quando arrivo in un posto cerco di integrarmi. Non mi arrabbio mai. Non mi sono mai incazzato con nessuno. Cerco di essere tranquillo, di fare a modo. Ho sempre il sorriso. Credo molto in me stesso. Mi fido molto di me stesso. Non ho preso, grazie a Dio, strade sbagliate».
E aspetta i famosi “documenti”. Quelli che aspettano tutti e non arrivano mai. Oppure arrivano con la richiesta di protezione bocciata, e bisogna ricominciare tutto d’accapo facendo ricorso.
E se arrivano buoni? chiedo. «Se arrivano buoni comincerà un’altra vita, di cui non voglio parlare». Già, avevo capito, non ne vuoi parlare, ok.
L’oggi, ancora. Solo l’oggi.
Ma questo eterno presente mi racconta di Amadou, e immagino di tanti come lui, forse più di qualunque lunga storia sui mille pericoli scampati e sui mille progetti progettati.
Eppure, neanche per uno tosto come Amadou è così facile tenerlo fuori completamente, il passato.
Due squarci, senza che chieda più niente, arrivano, secchi come fucilate nella notte. Uno in Italia, uno nel Paese d’origine. Due squarci che colpiscono dritti al cuore. Giornalisticamente potremmo definirli due “titoli”. Senza dettagli, senza alcun particolare, senza il minimo appiglio nemmeno per l’immaginazione, nessuno spiraglio per nessuna ulteriore domanda.
Prima fucilata. «Avevo una ragazza, è morta».
Seconda fucilata. «In Costa d’Avorio c’è la mia famiglia, i miei genitori, una sorella e due fratelli. Sto aggrappato a loro, li sento, li vedo in videochiamata, spero possiamo riunirci, la famiglia è tutto». E voi non potete né vederlo né sentirlo, Amadou, mentre mi dice «la famiglia è tutto». Ma io sì. Cambia l’espressione del volto, cambia la voce, cambiano i movimenti della testa che seguo in cam. È un pozzo di cui non si vede il fondo, questo «la famiglia è tutto», quando sai che la famiglia è a seimila chilometri di distanza e sei-sette anni di distacco.
Zoom ci ha regalato – bontà sua – qualche minuto in più del previsto. Ma si rimangia questa generosità con uno sgarbo capriccioso. Si stacca di colpo, senza preavviso. Neanche la possibilità di un saluto veloce, di un “ciao”. Rimango a fissare per un po’ lo schermo vuoto.
Quando si dice l’oggi, solo l’oggi, anzi l’attimo. Vivere soltanto l’attimo, con un passato troppo doloroso da rievocare e un futuro da tenere ben protetto, al riparo, ben custodito nella cantina del cuore.
Piergiorgio Paterlini